Geopolitica per la Difesa e la Sicurezza

MEDIO ORIENTE: L’ANNESSIONE CAMBIA IL CALCOLO STRATEGICO


Quando la Casa Bianca ha mediato la prima fase del cessate il fuoco tra Israele e Hamas — venti ostaggi vivi rilasciati da Gaza, quasi duemila prigionieri palestinesi liberati, pause militari e un ridispiegamento israeliano dentro la Striscia — sembrava aprirsi una finestra stretta ma reale per trasformare il conflitto in un processo. “Il lavoro non è finito. La fase due inizia adesso”, ha scritto il presidente statunitense Donald Trump, mentre i think tank a Washington e in Europa mettevano in fila le condizioni minime: ostaggi, aiuti, sicurezza sul terreno, una forza internazionale a supporto, e — soprattutto — una governance palestinese che potesse tornare ad avere legittimità. L’Atlantic Council ha condensato questa agenda in venti domande: cosa accadrà agli ostaggi rimasti, come si organizzerà la sicurezza, come si ricostruirà Gaza, che ne sarà dell’Autorità Palestinese (AP), e fin dove potrà spingersi la normalizzazione arabo-israeliana aperta dagli Accordi di Abramo.

Quel cronoprogramma, tuttavia, è stato riscritto da un gesto politico: la Knesset ha approvato in prima lettura un disegno di legge che applica la legge israeliana in Cisgiordania, passo considerato da gran parte della comunità internazionale una annessione de facto. Netanyahu, stretto tra alleati di estrema destra e pressioni esterne, ha lasciato intendere prudenza; ma il segnale lanciato dal Parlamento è inequivoco e proietta il dossier fuori dalla semplice “gestione del cessate il fuoco” per trasformarlo in una contesa giuridico-politica permanente sullo status dei Territori.

Sul piano del diritto, l’opinione consultiva della Corte Internazionale di Giustizia del 19 luglio 2024 ha chiarito che l’occupazione e la politica insediativa violano gli obblighi internazionali di Israele e generano, per gli Stati terzi, doveri di non riconoscimento e non assistenza a situazioni illegali; un passaggio verso l’annessione alza di colpo i costi di compliance per governi, aziende e finanza internazionale.

In questo nuovo articolo punto a sviluppare l’analisi del contesto attraverso cinque assi strategici che ci aiutano a leggere che cosa conti davvero — e come la mossa sulla Cisgiordania ricalibri il calcolo di Stati Uniti, Arabia Saudita ed Emirati, Turchia, nonché degli attori di disturbo come Iran, Hezbollah e Houthi.

Trovi di seguito il testo dell’articolo, oltre ai link per ascoltarlo in versione PODCAST su YouTube e su Spotify.

Medio Oriente, fase “due e mezzo”: tregua fragile, annessione in marcia e il nuovo calcolo di potenza tra Golfo, Turchia e grandi attori

Asse 1 — Fiducia minima e “capitale politico”: ostaggi, aiuti e verità forense

La restituzione dei resti degli ostaggi deceduti, il ritmo degli scambi e l’accesso umanitario non sono semplici variabili umanitarie: costituiscono il capitale politico che rende possibile la fase successiva. Ogni falla — un corpo che non torna, un convoglio saccheggiato, un checkpoint che si chiude — erode quella fiducia residua necessaria a far entrare in campo una forza internazionale e a far ripartire cantieri e scuole. Il problema è che l’annessione in Cisgiordania sposta l’attenzione e polarizza la narrativa: mentre a Gaza si tenta di regolare corridoi e macchinari, a Gerusalemme si dibatte se istituzionalizzare l’asimmetria territoriale oltre la Linea Verde. È difficile convincere opinioni pubbliche arabe e partner europei a investire sul terreno se, a poche decine di chilometri, si apre un contenzioso normativo di tale portata. In altre parole: l’ossigeno politico che alimenta il “processo Gaza” si consuma nella camera iperbarica della Cisgiordania.


Asse 2 — Sicurezza e ritiro: dal “ridispiegamento selettivo” alla logica dei corridoi

La fase due del piano statunitense non ha mai implicato, realisticamente, una smobilitazione totale dell’IDF: Israele punta a negare la ricostituzione di Hamas, mantenendo controllo su corridoi strategici (Philadelphi, cuscinetti, assi logistici) e praticando un ridispiegamento selettivo coerente con obiettivi contro-insurrezionali. È il lessico della “riduzione del fuoco”, non della pace calda: l’esperienza del fronte nord con Hezbollah, pur sotto tregua, lo conferma. L’annessione in West Bank, però, complica l’architettura: i partner che dovrebbero contribuire a una Forza di Sicurezza Internazionale (ISF) a Gaza si chiedono perché dovrebbero “coprire” in un teatro mentre, in un altro, si consolida una scelta percepita come illegale. È un cortocircuito: più si alza la posta in Cisgiordania, più si fa difficile arruolare contributori per la sicurezza a sud.


Asse 3 — Ricostruzione come leva (non come premio): finanza araba, condizionalità e “compliance”

Gaza ha bisogno di ingegneria e logistica prima ancora che di denaro: riparare reti idriche e fognarie, riaprire strade, garantire sicurezza ai cantieri. Qui il Golfo sarebbe cruciale non solo come finanziatore, ma come project manager regionale. Con l’annessione, però, Riyadh e Abu Dhabi devono rispondere a tre domande: dove finiscono i loro soldi (tracciabilità), come si evita di legittimare un quadro legale contestato dall’ICJ, e come “vendere” in patria la cooperazione con Israele mentre il Parlamento israeliano codifica l’estensione della sovranità nei Territori. Non è un caso se gli Emirati hanno parlato, a settembre, di “linea rossa” rispetto a piani di annessione/espansione: gli Accordi di Abramo nascevano anche dall’impegno (allora esplicitato) a sospendere l’annessione; rimetterla in marcia svuota la promessa politica originaria e sposta l’ago dal business-as-usual al downshift diplomatico.


Asse 4 — Disarmo di Hamas e hard-peacekeeping: quando l’ISF diventa “missione impossibile”

Un’ISF efficace a Gaza richiede massa critica, mandato e regole d’ingaggio adatte a un ambiente dove la minaccia non è scomparsa e dove attori esterni cercano di “testare” ogni vuoto. Ma nessuna coalizione arabo-musulmana si esporrà volentieri se, nel frattempo, a est di Gerusalemme si procede su binari di annessione: diventa più arduo, politicamente, presentarsi come garante di stabilità in un teatro mentre nell’altro si percepisce un’erosione strutturale dei diritti dei palestinesi. Il risultato è una missione sempre più asimmetrica: più hard nei compiti, più fragile nella copertura politica. E quando la politica arretra, i caschi — per quanto robusti — restano bersagli.


Asse 5 — Governance e legittimità: la riforma dell’AP non basta se lo status cambia per legge

Tutti ripetono che senza riforme visibili dell’Autorità Palestinese non si costruisce alcuna legittimità a Gaza. È vero. Ma vale anche l’inverso: se in Cisgiordania si procede verso annessione — totale o “a isole” — il migliore piano di riforma amministrativa non compensa l’effetto costituente di una legge che ridisegna confini e competenze. La legittimità non è solo performance; è status. L’ICJ (Corte Internazionale di Giustizia) ha fissato una cornice che i governi europei e arabi non possono ignorare a piacimento. Da qui il rischio di uno sdoppiamento: un processo tecnico-gestionale su Gaza e un conflitto politico-giuridico su West Bank, che si alimentano a vicenda.


Ed ora vediamo come stia cambiando, nel nuovo contesto determinato dalle mosse militari e politiche di Israele, il calcolo strategico dei principali attori regionali e gli impatti più immediati sugli interessi di Stati Uniti ed UE.

Il nuovo calcolo dei Paesi del Golfo: l’annessione rende “invendibile” la normalizzazione saudita (e mette sotto stress quella emiratina)

Per Riyadh, la normalizzazione non è mai stata un fine in sé: è una leva per sicurezza, tecnologia e riconoscimento del suo ruolo di architrave arabo. Già prima della Knesset, la leadership saudita aveva segnalato che un accordo politico era condizionato a passi tangibili per i palestinesi. L’avvio dell’annessione sposta quel requisito da “concessioni” a “reversals”: come giustificare in patria — e nel mondo musulmano — un abbraccio strategico se, nello stesso tempo, si istituzionalizza l’assorbimento di territori che dovrebbero comporre un futuro Stato palestinese? Non sorprende che fonti vicine al governo abbiano parlato di “linea rossa”: nella sequenza saudita, l’annessione preclude il corridoio politico per proseguire la normalizzazione, a prescindere dai pacchetti con Washington su difesa aerea o nucleare civile.

Per gli Emirati, che avevano impostato gli Accordi di Abramo come scommessa su integrazione economica e de-escalation, l’annessione equivarrebbe a smentire il presupposto stesso della normalizzazione del 2020 (sospensione dell’annessione): per questo Abu Dhabi ha messo in chiaro che sarebbe una “red line”. Non significa che i flussi economici si azzerino domani; significa che la copertura politica si assottiglia, i progetti simbolici rischiano il gelo e la cooperazione assume profilo più tecnico che strategico, esposta a stop&go a ogni nuova escalation.


La Turchia tra condanna politica, leva economica e “capacity building”

Ankara ha definito “nullo e privo di effetti” il voto della Knesset e ha ricordato la cornice dell’occupazione dal 1967. Non è solo retorica: la Turchia ha strumenti per alzare i costi della normalizzazione altrui (pressione diplomatica, restrizioni commerciali mirate, mobilitazione nei forum islamici) e, al contempo, per offrire alternative operative nel campo umanitario e della ricostruzione (ospedali da campo, edilizia modulare, ingegneria civile), intercettando capitali che i partner del Golfo preferissero non allocare in consorzi con Israele finché l’annessione resta sul tavolo. Più l’annessione avanza, più diventa verosimile una ricomposizione tattica tra Turchia, Qatar, Egitto e Giordania per coordinare progetti “a bandiera araba/islamica” nella Striscia.


Hezbollah e Houthi riscrivono i costi di assicurazione, non solo la politica

Se Gaza si stabilizza appena, ma in Cisgiordania si procede verso l’annessione, Hezbollah ha incentivi a rialzare (con misura) il costo a nord della frontiera, rimanendo nella logica del “sotto-soglia”. Gli Houthi, che hanno già mostrato di saper alterare le rotte globali del Mar Rosso, possono riscaldare la pressione marittima a ondate, facendo rimbalzare i premi assicurativi e costringendo le catene del valore a nuovi re-routing via Capo di Buona Speranza. Il risultato è un’esternalità che non colpisce solo Israele: riguarda Suez, l’Europa, l’Asia, e qualunque governo desideri una de-risking supply-chain. L’annessione fornisce una narrativa mobilitante all’“asse della resistenza”, con effetti economici disproporzionati rispetto all’input militare.


Stati Uniti: architetti di un equilibrio che l’annessione rende più caro (e più incerto)

Washington aveva puntato su tre linee: consolidare la tregua a Gaza con una forza internazionale robusta; accelerare interoperabilità e protezione civili nel rapporto bilaterale con Israele (anche in vista del nuovo Memorandum post-2028); e allargare/approfondire gli Accordi di Abramo, possibilmente includendo l’Arabia Saudita. L’avvio dell’annessione cambia il denominatore comune: ogni passo verso la normalizzazione saudita diventa politicamente tossico, mentre l’ICJ impone a partner europei e asiatici paletti legali più rigidi. Persino a Washington, il dibattito si polarizza: difendere Israele e governare gli effetti dell’annessione richiede una finezza diplomatica che mal si concilia con un sistema politico interno estremamente divisivo. È il paradosso americano: più servirebbe leadership per cucire il regio-puzzle, più l’annessione toglie filo all’ago.


Che scenario si profila in una logica di Realismo geopolitico

È probabile un interregno ambiguo: l’annessione non si chiude subito, ma avanza a pezzi (aree prioritarie, pacchetti urbanistici, estensione funzionale di norme), per non compromettere del tutto il capitale politico che tiene insieme la fase due del piano di pace americano.

L’ambiguità è fondamentale anche per dare tempo all’Arabia Saudita di finalizzare un accordo di difesa con Washington, simile al patto siglato con il Qatar il mese scorso, che impegnerebbe gli Stati Uniti a considerare qualsiasi attacco al regno come una minaccia diretta alla propria pace e sicurezza nazionale, secondo quanto riportato dal Financial Times.

Dati gli equilibri strategici in gioco, penso quindi probabile che gli Accordi di Abramo non saltino, ma scivolino in una modalità tecnica; la normalizzazione saudita con Israele esce dal radar, e la forza internazionale di stabilizzazione ISF a Gaza fatica a comporsi con contributi arabi che siano spendibili in patria. In parallelo, i fronti di disturbo — Libano e Mar Rosso — moduleranno la pressione con provocazioni mirate da parte dei proxy iraniani e ulteriori dure rappresaglie israeliane.

La variabile chiave resta la Cisgiordania: se dalla Knesset arriva un segnale di “freno d’emergenza”, una finestra negoziale potrebbe riaprirsi; se invece un primo segmento di annessione diventa legge, la regione entrerà in un equilibrio di attrito permanente con costi crescenti per commercio e diplomazia.


Una nota giuridica che pesa (anche se non sembra): ICJ e obblighi degli Stati terzi

L’ICJ non è un editoriale: è una cornice. L’opinione del 2024 — che richiama a cessare violazioni, smantellare gli insediamenti illegali e astenersi dal riconoscere/aiutare situazioni illecite — non scompare perché difficile da applicare. Diventa, piuttosto, la base per linee guida su export, appalti pubblici, finanza sostenibile; un terreno dove l’UE si trova spesso a codificare “standard” che il settore privato è costretto a seguire. L’annessione in marcia accelera questo meccanismo: più si avanza su West Bank, più crescono i rischi di contenziosi e più si alza l’asticella per qualunque partner intenda mantenere cooperazione visibile con Israele senza incorrere in rischi legali e reputazionali.


In sintesi: se vuoi salvare gli Accordi, devi salvare prima il terreno politico che li rende possibili

La fase uno del cessate il fuoco aveva aperto un cantiere complicato ma intuitivo: scambiare ostaggi e prigionieri, far passare aiuti, disinnescare Hamas come attore armato e riportare una qualche forma di governance palestinese — magari riformata — a Gaza. La fase “due e mezzo” in cui siamo entrati — tregua ancora fragile, annessione della Cisgiordania avviata — dice che non basta “gestire” Gaza se cambia lo status della West Bank. Per i Paesi del Golfo, a partire dall’Arabia Saudita, la normalizzazione non è più “difficile”: è invendibile finché l’annessione resta sul tavolo. Per gli Emirati, la soglia delle “red line” è stata varcata sul piano politico, anche se gli scambi economici possono resistere in modalità a bassa visibilità. Per la Turchia, si aprono spazi per combinare condanna e proposta operativa, offrendo al mondo arabo un’alternativa di ricostruzione e assistenza che non richieda photo-op con Israele. Per gli Stati Uniti, infine, ogni passo avanti sugli Accordi di Abramo senza un argine credibile all’annessione sposta il costo da domani a dopodomani, presentando il conto sotto forma di instabilità cronica, premi assicurativi e logistica dirottata lontano da Suez.

Se l’obiettivo resta un ordine regionale più stabile, bisogna rimettere in sincronia la sicurezza, governance e legalità. Tradotto: l’ISF a Gaza ha senso se c’è un percorso verificabile che non renda irrecuperabile la soluzione a due Stati in Cisgiordania; i fondi del Golfo hanno senso se non devono difendere l’indifendibile; gli Accordi di Abramo hanno senso se non diventano il paravento elegante di una realtà che, un voto parlamentare dopo l’altro, smette di essere negoziabile. L’annessione non è un dettaglio di calendario: è la variabile che decide se la regione scivolerà verso una normalizzazione senza pace — e, dunque, senza stabilità — oppure se troverà il coraggio di rimettere la politica prima dei fatti compiuti.


Per approfondire , riporto la principali fonti che ho citato in questo articolo: Atlantic Council sulle “venti domande” della fase successiva; Reuters e FT sulle mosse della Knesset e sulle “red line” emiratine; i documenti del Ministero degli Esteri Turchia e i lanci di agenzia su Ankara; l’ICJ e i relativi riassunti UN/accademici Corte Internazionale di Giustizia; l’International Crisis Group sulla “annessione accelerata”; Washington Institute e IISS International Institute for Strategic Studies per l’analisi sulla pressione Houthi nel Mar Rosso.

Prof. Alessandro Pozzi – Politecnico di Milano, Corso “Geopolitica per la Difesa e la Sicurezza”


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