DAL MODELLO CINESE AL RILANCIO EUROPEO
Negli ultimi 10 anni, Pechino ha fatto ciò che nessun altro Paese ha avuto la coerenza di fare: integrare efficacemente la politica industriale e tecnologica con la strategia.
Nel PODCAST e nell’articolo che segue, della serie 𝗚𝗲𝗼𝗽𝗼𝗹𝗶𝘁𝗶𝗰𝗮 𝗽𝗲𝗿 𝗹𝗮 𝗗𝗶𝗳𝗲𝘀𝗮 𝗲 𝗹𝗮 𝗦𝗶𝗰𝘂𝗿𝗲𝘇𝘇𝗮, punto a spiegare come il piano Made in China 2025 non sia solo economia: è una strategia di Potenza adattiva.
Vediamo come dietro i sussidi ci siano reti fisiche e digitali che garantiscono resilienza e autonomia; dietro le aziende tecnologiche, una forza lavoro di 70 milioni di persone con competenze produttive che nessun Paese occidentale può replicare in tempi brevi.
Il modello americano basato sul contenimento attraverso dazi e restrizioni all’export tecnologico verso la Cina, ha generato un “momento Sputnik”, accelerando finora l’autonomia tecnologica di campioni nazionali come Huawei, SMIC e DeepSeek.
E l’Europa? Partendo dai fattori critici di successo del modello cinese, vediamo cosa possano fare i Paesi dell’Unione per non subire la storia che sta venendo scritta da Washington e Pechino.
COME PECHINO HA COSTRUITO LA SUA POTENZA INDUSTRIALE E TECNOLOGICA
Dieci anni fa, la Cina annunciava Made in China 2025, un piano che molti osservatori occidentali salutarono con scetticismo. L’obiettivo appariva titanico: trasformare la seconda economia mondiale in una superpotenza tecnologica, capace di guidare i settori strategici del XXI secolo — energia pulita, semiconduttori, automazione, materiali avanzati, mobilità elettrica.
Oggi, con il senno di poi, è chiaro che quella strategia non era solo un esercizio di propaganda economica: era il primo passo verso una profonda riorganizzazione dello Stato e della società industriale cinese. Pechino non ha semplicemente iniettato denaro nei settori “del futuro”; ha costruito un ecosistema tecnologico e infrastrutturale capace di sostenere la crescita industriale per decenni, qualunque siano le turbolenze economiche o le sanzioni occidentali.
IL MOTORE INVISIBILE DEL SUCCESSO CINESE
L’idea di fondo di Made in China 2025 era semplice ma ambiziosa: ridurre la dipendenza dalle importazioni, accrescere la competitività delle imprese nazionali e conquistare le filiere globali dell’innovazione. Per farlo, Pechino ha speso fino al 2% del proprio PIL in sussidi diretti e indiretti, crediti agevolati, incentivi fiscali e investimenti pubblici massicci.
Il risultato? In un solo decennio, la Cina è passata da “fabbrica del mondo” a cuore pulsante della transizione tecnologica globale:
- domina i veicoli elettrici e le energie pulite;
- è leader mondiale nella produzione di batterie e droni;
- controlla le terre rare e la catena del valore del solare;
- sta raggiungendo competenze di frontiera nei semiconduttori e nell’intelligenza artificiale.
Dietro questa ascesa, però, non c’è solo la generosità dei sussidi. Il vero punto di forza del modello cinese è la costruzione di “infrastrutture profonde” — fisiche, digitali, energetiche e umane — che rendono possibile innovare e produrre con efficienza su scala gigantesca.
UN ECOSISTEMA INFRASTRUTTURALE SENZA RIVALI
Secondo una recentissima ricerca pubblicata su Foreign Affairs, negli ultimi trent’anni, la Cina ha costruito un apparato infrastrutturale senza eguali nella storia economica moderna.
- La rete autostradale cinese è oggi il doppio di quella americana.
- La rete ferroviaria ad alta velocità supera in lunghezza quella del resto del mondo messo insieme.
- I porti cinesi — da Shanghai a Shenzhen — movimentano più merci di tutti i porti statunitensi combinati.
Ma la vera innovazione è avvenuta altrove: nella rete digitale e nella rete elettrica.
LA RETE DIGITALE COME STRUMENTO DI POTERE
Mentre l’Occidente vedeva Internet come una minaccia per i regimi autoritari, Pechino ne intuiva il potenziale opposto. Il Partito Comunista ha costruito un Internet “chiuso ma efficiente”, un sistema nazionale che connette quasi tutta la popolazione, controlla l’informazione e alimenta un ecosistema industriale digitale tra i più dinamici del pianeta.
Da questa matrice sono nate aziende come Alibaba, Tencent, ByteDance, Huawei, capaci di innovare nonostante (o forse grazie a) la supervisione statale. L’infrastruttura digitale è diventata così un pilastro di crescita economica e di controllo politico.
LA RETE ELETTRICA COME FONDAMENTO TECNOLOGICO
L’altro pilastro del modello cinese è l’energia. In 25 anni, la Cina ha costruito centrali per quantità equivalenti alla capacità totale del Regno Unito ogni anno. Produce oggi più elettricità degli Stati Uniti e dell’Europa messi insieme e ha realizzato linee ad altissima tensione che attraversano il Paese da costa a costa.
Grazie a questo sistema, la Cina è diventata la prima grande economia in via di elettrificazione completa: quasi il 30% del suo consumo energetico è elettrico, contro il 22% americano. E questa quota cresce rapidamente, trainando la mobilità elettrica, l’intelligenza artificiale e l’automazione industriale.
Non si tratta di un piano rigido, ma di un processo cumulativo: la risposta pragmatica a problemi specifici (energia, logistica, inquinamento) ha prodotto un effetto sistemico — la nascita di un ecosistema energetico industriale competitivo e autosufficiente.
LA CONOSCENZA DEI PROCESSI: L’INFRASTRUTTURA UMANA
A completare questo quadro c’è un altro asset spesso trascurato: la forza lavoro industriale cinese. Con oltre 70 milioni di lavoratori nel manifatturiero, la Cina possiede la più vasta concentrazione di “conoscenza di processo” al mondo — un sapere pratico, cumulativo, basato su anni di sperimentazione, ottimizzazione e produzione.
È questo capitale umano che consente di rendere scalabile rapidamente ogni nuova tecnologia: dal telefono all’auto elettrica, dal drone al pannello solare.
Un esempio paradigmatico è Xiaomi, passata in pochi anni dagli smartphone ai veicoli elettrici, fino a battere record di velocità sul circuito tedesco del Nürburgring. Un’impresa impensabile senza una rete di fornitori, ingegneri e operai altamente coordinata. Il confronto con Apple è emblematico: nonostante risorse finanziarie enormi, il progetto dell’auto elettrica americana è stato cancellato dopo dieci anni di tentativi. Mancava l’ecosistema — energetico, produttivo e umano — che in Cina è ormai strutturale.
LE CREPE DEL MODELLO
Eppure, l’efficienza industriale cinese non è priva di costi. Il generoso sistema di sussidi ha favorito corruzione, sprechi e sovracapacità produttiva. In alcuni settori, come i semiconduttori e il solare, decine di imprese producono gli stessi beni con margini quasi nulli. La deflazione dei prezzi frena i salari, riduce i consumi e alimenta un circolo vizioso di domanda interna debole e surplus commerciale crescente (oggi vicino a un trilione di dollari).
Il governo è consapevole di questi eccessi e sta gradualmente favorendo il consolidamento industriale: meno aziende, più grandi e più efficienti. Ma la priorità strategica resta la stessa: non deindustrializzare mai. Come ha dichiarato Xi Jinping nel 2020, l’obiettivo non è la crescita veloce, ma l’autosufficienza tecnologica — anche a costo di una crescita più lenta e di tensioni commerciali con l’Occidente.
GLI STATI UNITI E L’ILLUSIONE DEL CONTENIMENTO
Di fronte a questa traiettoria, Washington ha reagito con un misto di paura e disorientamento. Dall’amministrazione Trump in poi, gli Stati Uniti hanno cercato di frenare la Cina più che rafforzare se stessi: dazi, sanzioni, controlli all’export di chip e tecnologie avanzate. L’idea era semplice: tagliare l’accesso di Pechino ai semiconduttori occidentali per rallentare il suo progresso.
Il risultato, però, è stato ambiguo. Alcune aziende cinesi, come ZTE, hanno sofferto. Ma le più forti — Huawei, SMIC, DeepSeek — hanno reagito accelerando l’autonomia tecnologica. Huawei è tornata ai livelli di ricavi pre-sanzioni; SMIC produce chip a 7 nanometri; i modelli linguistici di intelligenza artificiale cinesi sono ormai a pochi mesi di distanza dai rivali americani. Paradossalmente, le restrizioni statunitensi hanno funzionato come un “momento Sputnik”: un potente stimolo alla mobilitazione nazionale verso la sovranità tecnologica.
L’AMERICA SENZA INFRASTRUTTURE
Gli Stati Uniti hanno grande abbondanza di risorse, ma finora mancano di coerenza. Il CHIPS Act e l’Inflation Reduction Act hanno stanziato centinaia di miliardi di dollari per rilanciare semiconduttori e tecnologie pulite. Tuttavia, i risultati sono modesti: le reti elettriche restano obsolete, la banda larga promessa da Biden non è stata realizzata, e il Paese non ha una rete nazionale di ricarica per veicoli elettrici. I progetti industriali arrancano tra burocrazia e costi eccessivi. Le tensioni migratorie riducono la disponibilità di manodopera qualificata, mentre i tagli alla ricerca minano la supremazia scientifica americana.
La politica dei dazi, poi, aggrava la situazione: crea incertezza, riduce gli investimenti e indebolisce la base manifatturiera. In pochi mesi, gli Stati Uniti hanno perso decine di migliaia di posti di lavoro industriali.
In sintesi: Washington rischia di privilegiare la guerra commerciale invece della concreta ricostruzione industriale.
IL CONFRONTO DECISIVO: ECOSISTEMI CONTRO TATTICHE
Il punto non è che la Cina sia invincibile. È che gioca un gioco diverso. Il suo successo deriva da un progetto sistemico: infrastrutture fisiche e digitali integrate, energia abbondante, forza lavoro esperta, sostegno politico di lungo periodo. Gli Stati Uniti, al contrario, oscillano tra liberalismo ideologico e protezionismo tattico, senza una visione coerente di sviluppo industriale.
Pechino costruisce un ecosistema, investe in conoscenze di processo, accetta sprechi pur di consolidare la supremazia industriale.
Washington impone controlli, celebra le start-up ma trascura la manifattura, si preoccupa di non scontentare gli azionisti.
DAL MODELLO CINESE ALL’ANALISI DRAGHI: UNA NUOVA STRATEGIA INDUSTRIALE PER L’UNIONE EUROPEA
Negli ultimi decenni l’Unione Europea ha costruito un modello economico basato su regole, mercato unico e disciplina fiscale. Ma nel frattempo, Cina e Stati Uniti hanno sviluppato modelli di crescita fondati su un elemento che in Europa è mancato: una strategia industriale di lungo periodo.
La Cina ha unito pianificazione statale, investimenti giganteschi e infrastrutture imponenti. Gli Stati Uniti hanno risposto con una politica industriale mirata e con un accesso illimitato al capitale privato.
L’Europa, invece, si è mossa più lentamente, frammentata tra ventisette politiche nazionali e un mercato dei capitali diviso, perdendo terreno in innovazione, energia e tecnologia.
Il Rapporto Draghi sulla competitività europea — presentato nel 2024 — è stato un punto di svolta. L’ex presidente della Banca Centrale Europea ha descritto con chiarezza una realtà che molti intuivano ma pochi dicevano apertamente: l’Europa non è più competitiva. E non perché manchi di talenti o di idee, ma perché non riesce a trasformarli in industria, in crescita e in occupazione. Per colmare questo divario con la Cina (e con gli Stati Uniti), Draghi e molti analisti europei propongono un cambio di mentalità: pensare come un continente, non come 27 economie separate.
1. Un vero mercato unico, non ventisette mercati nazionali
Oggi l’Europa è un mosaico economico. Ogni Paese ha le proprie regole fiscali, i propri sistemi energetici, i propri incentivi industriali. Questa frammentazione rende impossibile creare aziende e filiere capaci di competere alla scala cinese o americana. Il primo passo è quindi completare il mercato unico, non solo per i beni, ma anche per tre ambiti chiave: il capitale, l’energia e i dati.
Un mercato dei capitali europeo. Negli Stati Uniti o in Cina, un’azienda innovativa può raccogliere capitali da investitori di tutto il Paese. In Europa, invece, deve affrontare regole diverse, tasse diverse e barriere burocratiche che scoraggiano l’investimento. Creare un mercato unico dei capitali significa permettere alle imprese europee di crescere con risorse continentali, senza dipendere da capitali americani o fondi asiatici. In concreto, serve una maggiore armonizzazione fiscale, regole comuni per gli investitori e strumenti finanziari europei di lungo periodo.
Un sistema energetico integrato. Il costo dell’energia è oggi uno dei principali svantaggi dell’industria europea rispetto alla Cina. Mentre Pechino dispone di una rete elettrica gigantesca e a basso costo, l’Europa resta divisa in sistemi nazionali che spesso non comunicano tra loro. Occorre costruire una rete energetica europea che permetta di scambiare elettricità, accumularla, e ridurre i costi complessivi. Ciò significa investire in linee elettriche transfrontaliere, in sistemi di accumulo (batterie e idrogeno) e in un mix energetico più equilibrato tra rinnovabili, gas e, dove possibile, nucleare.
Un’unione dei dati e dell’intelligenza artificiale. Nel mondo digitale, i dati sono la nuova materia prima. Ma oggi in Europa essi sono frammentati e soggetti a regole diverse. Creare uno spazio unico dei dati significa permettere alle imprese e ai ricercatori di condividere informazioni in modo sicuro, favorendo lo sviluppo dell’intelligenza artificiale, dell’automazione e della medicina personalizzata. Ciò implica standard comuni, investimenti pubblici nel cloud europeo e un impegno serio per portare l’IA dentro le imprese, non solo nei laboratori di ricerca.
2. Investire insieme, non spendere separatamente
Nessun Paese europeo può, da solo, sostenere la scala d’investimenti necessaria per competere con la Cina. L’Europa deve finanziare insieme i progetti strategici — energia, difesa, tecnologie avanzate — attraverso strumenti comuni, come titoli europei dedicati o fondi condivisi. È un passo politico delicato, ma inevitabile: i singoli bilanci nazionali non bastano. E la frammentazione dei fondi nazionali produce sprechi, sovrapposizioni e lentezza.
Accanto ai fondi comuni serve anche una nuova disciplina dell’esecuzione. Ogni progetto europeo deve avere obiettivi misurabili, scadenze chiare e responsabilità definite. Troppo spesso, le iniziative comuni si perdono in una burocrazia senza responsabilità precise. Un’Europa competitiva deve imparare a valutare se stessa con criteri di efficienza, come fa il settore privato.
3. Dalla difesa passiva al protagonismo industriale
L’Europa ha reagito alla concorrenza cinese spesso con strumenti difensivi: dazi, regole antisussidi, indagini sui prodotti importati. Ma una strategia che si limita a difendere i confini non basta. Serve una politica industriale offensiva, capace di costruire filiere tecnologiche proprie e di investire nei settori in cui l’Europa può eccellere: energie pulite, semiconduttori, robotica, biotecnologie, spazio e difesa.
Questa politica deve essere europea, non nazionale. Oggi, ad esempio, ogni Paese finanzia la propria industria della difesa. Se l’Unione lanciasse appalti comuni, con standard tecnici condivisi, creerebbe un mercato più ampio e stimolerebbe innovazione e occupazione. Lo stesso vale per la sanità, la mobilità elettrica e la transizione digitale. Quando la domanda è unificata, anche l’offerta diventa più competitiva.
4. Energia ed elettricità a prezzi accessibili
La forza della Cina risiede anche nella sua energia a basso costo. L’Europa, al contrario, paga il prezzo di decenni di sotto-investimento e frammentazione. Per tornare competitiva deve garantire elettricità abbondante, stabile e pulita, costruendo reti moderne, accelerando le autorizzazioni per nuovi impianti e coordinando gli acquisti di materie prime critiche come litio, rame e terre rare. Il vero obiettivo è abbassare il costo medio dell’energia industriale, oggi tra i più alti del mondo, senza rinunciare alla sostenibilità.
5. Talento e lavoro: il capitale umano come vantaggio competitivo
L’Europa non potrà mai competere con la Cina sul costo del lavoro, ma può farlo sulla qualità del capitale umano. Occorre rendere più facile per i giovani formarsi e lavorare nei settori tecnologici, creare programmi europei di apprendistato e facilitare la mobilità dei lavoratori qualificati. Serve anche una politica migratoria intelligente, che attragga ricercatori, ingegneri e imprenditori da tutto il mondo. La competizione tecnologica è anche una competizione per il talento.
6. Difesa e innovazione: due facce della stessa medaglia
Il settore della difesa può diventare un motore d’innovazione, come accadde negli Stati Uniti con Internet o con il GPS. Investire insieme nella sicurezza significa anche sviluppare tecnologie duali — materiali avanzati, sensoristica, robotica, spazio — che possono generare ricadute economiche in molti altri settori. La chiave è la cooperazione: una base industriale della difesa europea non solo rafforza la sicurezza, ma stimola la ricerca e crea economie di scala.
7. Regole più semplici, decisioni più rapide
Uno dei limiti strutturali dell’Europa è la lentezza. Costruire un impianto industriale, una linea elettrica o un data center richiede anni di autorizzazioni. Ogni progetto deve attraversare decine di uffici, spesso con procedure diverse da Paese a Paese. Serve una vera semplificazione amministrativa, con tempi certi e una logica di “sportello unico” per i progetti strategici.
Anche sul fronte digitale, le regole devono essere più chiare e prevedibili. L’Europa è leader nella tutela dei diritti digitali, ma deve evitare che un eccesso di regole soffochi l’innovazione. Servono norme stabili, comprensibili e aggiornate rapidamente, soprattutto per l’intelligenza artificiale.
8. Decidere insieme, non paralizzarsi nell’unanimità
Molte delle sfide europee — energia, difesa, commercio — non possono essere affrontate con la regola dell’unanimità, che consente a un solo Paese di bloccare le decisioni di tutti. Occorre riformare la governance, introducendo il voto a maggioranza qualificata nelle aree strategiche. La competizione globale non aspetta: mentre l’Europa discute, la Cina costruisce. Decidere più in fretta non significa rinunciare alla democrazia, ma renderla capace di agire.
9. Un’agenda per i prossimi tre anni
Per passare finalmente dalle parole ai fatti, la presidenza della Commissione Europea nella presentazione del 17 settembre 2025 ha rilanciato alcuni obiettivi concreti e a breve termine.
- Entro un anno: semplificare le autorizzazioni per energia e infrastrutture; avviare un fondo comune per le tecnologie critiche; lanciare i primi appalti europei congiunti nel settore della difesa e dell’IA.
- Entro due anni: creare un quadro normativo unico per le imprese innovative, facilitare gli investimenti transfrontalieri e avviare programmi europei di formazione tecnica.
- Entro tre anni: emettere debito comune per finanziare grandi progetti energetici e digitali, e rendere operativo uno spazio unico dei dati industriali.
10. L’Europa può farcela, ma deve scegliere di farcela
L’Europa non è destinata al declino: abbiamo università eccellenti, ricerca scientifica di primo livello, un mercato di 450 milioni di persone e una domanda sofisticata di beni e servizi tecnologici. Ma per competere con la Cina deve ritrovare la massa critica: nel capitale, nell’energia, nei dati, nel coraggio politico.
La sfida non è solo economica, è identitaria: o l’Europa torna a costruire — fabbriche, infrastrutture, reti — o sarà condannata a consumare innovazione prodotta altrove. Il futuro industriale del continente dipende dalla capacità di trasformare l’idea di Europa in un vero progetto economico comune.
E come ha scritto Draghi nel suo rapporto: “Non serve più un mercato unico di regole. Serve un’Unione capace di produrre, innovare e competere.”
ADATTARSI AL MONDO SECONDO PECHINO
Il “vero modello cinese” non è una formula magica né una semplice economia di Stato. È una strategia di potenza che fonde pianificazione e pragmatismo, controllo politico e dinamismo imprenditoriale. I suoi difetti — sovracapacità, corruzione, deflazione — sono il prezzo pagato per un obiettivo strategico più alto: l’autosufficienza tecnologica e il dominio industriale.
Gli Stati Uniti e l’Unione Europea, se vogliono restare protagonisti, dovranno accettare una lezione scomoda: non basta difendersi dalla Cina, bisogna diventare di nuovo competitivi. La battaglia per la supremazia tecnologica non si vincerà nei tribunali del commercio internazionale, ma nelle fabbriche, nei laboratori e nelle reti elettriche del futuro.
La nuova geografia economica che si sta delineando a livello globale, conferma una volta di più che nella Realtà geopolitica non ci sono amici o nemici per sempre, solo interessi strategici.
✍️ Prof. Alessandro Pozzi – Politecnico di Milano, Corso “Geopolitica per la Difesa e la Sicurezza”
📌 Integrare l’analisi geopolitica nelle valutazioni di allocazione strategica è ormai indispensabile.
C’è un forte bisogno, da parte dei Leader aziendali e dei Private Bankers, di avere una visione strategica, per dare senso, creare connessioni nuove e individuare opportunità nei rapidi cambiamenti in atto, sempre più guidati dai processi decisionali degli Stati.
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