Geopolitica per la Difesa e la Sicurezza

IL NUOVO DISORDINE GLOBALE: FRAMMENTAZIONE, POTERE E CORSA ALLA PRODUTTIVITÀ


Nel mondo che emerge dalla lunga stagione della globalizzazione, Mario Draghi con una voce sobria riesce a disegnare le faglie profonde che attraversano l’economia mondiale: penso concretamente utile sintetizzare le sue riflessioni, emerse nel dialogo con Francine Lacqua di Bloomberg alla conferenza Citadel Future of Global Markets, perché non sono un esercizio accademico né una diagnosi pessimista. Sono la testimonianza di chi ha attraversato tutti i piani del potere economico e politico – dalle sale della Banca centrale europea alla guida del governo italiano – e che oggi osserva il mondo con il Realismo della consapevolezza che gli equilibri degli ultimi 30 anni non torneranno.

Non si parla più di “ordine mondiale”, ma di “nuovo disordine”. È una definizione che rovescia la narrativa dominante degli ultimi trent’anni. Dopo la caduta del Muro e l’espansione dei mercati, ci si era abituati a pensare che il commercio globale e le regole condivise avrebbero reso la politica internazionale prevedibile, quasi meccanica. Ora quella visione è crollata. E secondo Draghi, la causa non è soltanto geopolitica: è strutturale. L’ordine economico guidato dagli Stati Uniti, costruito sul libero scambio e sulla fiducia nei meccanismi multilaterali, è stato sostituito da un mosaico di blocchi, dove la cooperazione è contingente e l’interesse nazionale torna ad essere il vero motore della storia.

Trovi di seguito il testo dell’articolo, oltre ai link per ascoltarlo in versione PODCAST su Linkedin e su Spotify, ed infine la registrazione integrale dell’intervento di Draghi.

Il mondo, oggi, è tornato competitivo, incerto e segmentato. Non esistono più centri stabili di potere, ma sfere d’influenza che si formano e si dissolvono. Gli Stati Uniti e la Cina, sono destinati a convivere come due potenze che non possono prevalere l’una sull’altra ma non sanno ancora come coesistere. È una relazione che ricorda le tensioni prebelliche dell’Europa di inizio Novecento: due giganti costretti a riconoscersi, ma privi dell’esperienza del compromesso. L’America, abituata alla leadership solitaria, e la Cina, cresciuta nell’idea della propria centralità, devono ora imparare un equilibrio che non conoscono.

Il risultato è un mondo più rischioso, non solo dal punto di vista politico, ma anche economico e finanziario. Draghi individua in questa frammentazione la radice di una serie di nuove vulnerabilità: il ritorno dell’inflazione, la volatilità dei capitali, l’instabilità fiscale e la crisi di fiducia che attraversa le istituzioni multilaterali. La globalizzazione, che per trent’anni aveva garantito abbondanza di liquidità e un costo del denaro prossimo allo zero, ha lasciato in eredità un sistema che può seccarsi all’improvviso.

Il rischio invisibile: la fragilità della liquidità globale

Il mondo finanziario, osserva Draghi, continua a comportarsi come se la liquidità fosse una condizione naturale. Ma non lo è. Dopo la crisi del 2008, i mercati hanno vissuto un decennio di eccessi alimentato dalle banche centrali e dalla fiducia che l’intervento pubblico potesse sempre calmierare ogni shock. Oggi, quella certezza si è incrinata. L’acqua che sembrava infinita può sparire da un giorno all’altro. E quando si asciuga, le conseguenze sono immediate: tensioni sui titoli di Stato, crisi di fiducia tra istituzioni finanziarie, contrazione del credito.

Il secondo rischio strutturale è l’inflazione. Draghi la legge non come una parentesi, ma come un sintomo di un nuovo regime economico. Negli Stati Uniti, le scelte politiche – dai dazi al controllo dell’immigrazione – hanno introdotto elementi di rigidità che rendono l’inflazione più resistente di quanto ci si aspettasse. In Europa, invece, il problema è quasi l’opposto: regole fiscali rigide e una produttività stagnante riducono lo spazio per politiche anticicliche, rendendo il continente vulnerabile non tanto a un eccesso di domanda, quanto a un eccesso di fragilità.

Nel nuovo scenario, la variabile cruciale diventa la produttività. È qui che Draghi rovescia il paradigma. Per lui, il vero discrimine tra Paesi solidi e fragili non è il debito o la crescita di breve periodo, ma la capacità di diffondere l’innovazione tecnologica in tutto il tessuto economico. Non basta avere un settore high-tech vitale se il resto dell’economia resta fermo. È la “diffusione della produttività” – la velocità con cui il progresso nei settori avanzati si trasmette agli altri – a determinare lo spazio fiscale, la stabilità dei conti pubblici e, in definitiva, il margine di libertà politica di una nazione.

L’Europa davanti allo specchio

Nessun continente incarna le contraddizioni del nuovo disordine meglio dell’Europa. Draghi la descrive come un treno che per anni non è riuscito a partire, frenato da regole, divisioni e mancanza di visione comune. Ma oggi qualcosa si muove. La guerra in Ucraina, la crisi energetica e la corsa globale all’innovazione hanno costretto il Vecchio Continente a guardarsi allo specchio.

Il cosiddetto “Rapporto Draghi”, consegnato alla Commissione europea, è stato il tentativo più ambizioso degli ultimi anni di mettere nero su bianco una strategia industriale continentale. Non una riforma, ma una sveglia. Draghi ha mostrato come l’Europa rischi di diventare irrilevante non per mancanza di risorse, ma per incapacità di scalarle. Troppi sistemi normativi, troppe barriere nazionali, troppi ritardi burocratici. La frammentazione, più ancora della scarsità, è il vero nemico della competitività europea.

Eppure, qualche segnale di cambiamento esiste. La Germania, un tempo riluttante anche solo a pronunciare la parola “difesa”, ha avviato un programma di riarmo senza precedenti e modificato la propria Costituzione per renderlo possibile. L’Italia e la Francia hanno incrementato gli investimenti in tecnologia e sicurezza. Persino la Commissione, spesso accusata di lentezza, sta preparando un “grande piano” per modernizzare le reti energetiche e digitali del continente.

Draghi osserva tutto questo con prudente ottimismo: il treno è partito, anche se procede lentamente. Ma avverte che non basteranno investimenti e fondi europei se non cambieranno le regole della concorrenza e della fiscalità. Finché ogni impresa dovrà muoversi in 27 sistemi legali diversi, la scala resterà un miraggio. Il futuro industriale europeo, nella visione di Draghi, dipende dalla capacità di superare la logica nazionale e di accettare una vera unione economica, non solo monetaria.

L’illusione dell’autonomia strategica

Una delle parole più abusate nel lessico europeo recente è “autonomia strategica”. Draghi la smonta con la concretezza di un economista: nessun Paese, nemmeno l’Unione nel suo insieme, può davvero fare “decoupling” dalla Cina o dagli Stati Uniti. L’interdipendenza è una condizione strutturale del XXI secolo. Pretendere di eliminarla è illusorio. Ciò che si può e si deve fare, piuttosto, è gestirla.

Ecco perché Draghi parla di “de-risking” e non di “decoupling”. L’obiettivo non è isolarsi, ma ridurre le vulnerabilità in settori critici. L’Europa dovrà proteggere le sue industrie di frontiera – difesa, semiconduttori, intelligenza artificiale, green tech – senza rinunciare al commercio globale che costituisce metà del suo PIL. La difficoltà, però, è politica: mantenere equilibrio in un mondo dove le alleanze si ridefiniscono di continuo.

Con la guerra in Ucraina, l’Europa ha scoperto che la solidarietà tra i suoi membri non è garantita. Alcuni Paesi dell’Est, beneficiari per decenni dei fondi comunitari, si sono schierati in modo ambiguo sul fronte russo. Per Draghi, la conseguenza inevitabile è la nascita di “coalizioni di volenterosi”: gruppi di Paesi – Francia, Germania, Italia, Regno Unito – che avanzano insieme su difesa e sicurezza, senza aspettare il consenso unanime. È un’Europa a geometria variabile, più realistica e più simile a quella che potrebbe effettivamente funzionare.

Cina e Stati Uniti: la partita infinita

Draghi guarda alla Cina con lo sguardo di un analista più che di un politico. Sottolinea che la crescita cinese rallenta, appesantita da demografia negativa, debiti e crisi immobiliare, ma non crede che Pechino sia destinata al declino. Piuttosto, prevede una ricalibrazione: meno investimenti immobiliari, più spinta sull’intelligenza artificiale e sull’innovazione tecnologica. La Cina, osserva, ha compreso che la produttività è la chiave per preservare stabilità e potere.

L’America, d’altra parte, resta in vantaggio nelle scienze di base, nella capacità di attrarre capitale e talenti, e nel legame virtuoso tra università, ricerca e industria. Ma la rivalità tra i due sistemi è destinata a ridefinire ogni aspetto dell’economia mondiale. Non è una competizione “lineare”, spiega Draghi: non c’è un vincitore unico, ma una continua ridefinizione di posizioni.

Questa rivalità trascina con sé l’Europa, che non può più limitarsi al ruolo di spettatrice. Deve scegliere dove collocarsi, come tutelare le proprie tecnologie e quali alleanze stringere. Ma deve anche capire che la competizione non riguarda solo il potere militare o commerciale: riguarda la velocità con cui le innovazioni vengono integrate nel tessuto produttivo. In questa corsa, chi rimane indietro sulla produttività perde influenza, ricchezza e capacità di dettare le regole.

L’intelligenza artificiale come spartiacque

Tra le transizioni in corso, Draghi individua nell’intelligenza artificiale la più radicale. Paragona il suo impatto a quello dell’elettricità: una tecnologia che non modifica un singolo settore, ma cambia l’intera struttura della società. Tuttavia, invita alla cautela: l’AI non è ancora distribuita in modo equo. Esiste un rischio di concentrazione di potere tecnologico nelle mani di pochi Paesi e di poche aziende.

La vera questione non è se l’AI aumenterà la produttività – lo farà, inevitabilmente – ma quanto velocemente e in che modo i benefici si diffonderanno. Se resteranno confinati nei giganti tecnologici, si creerà un nuovo tipo di disuguaglianza globale: non tra ricchi e poveri, ma tra economie “ad alta produttività” e sistemi bloccati. La velocità di diffusione dell’innovazione, ancora una volta, diventa la variabile strategica del secolo.

Il rischio, aggiunge, è l’illusione del boom permanente. L’entusiasmo attorno all’AI può generare bolle speculative, come accadde con la new economy. La differenza è che oggi il capitale investito è immensamente maggiore. La domanda, quindi, è se gli enormi investimenti genereranno ritorni reali o si tradurranno in un eccesso di capacità produttiva che il mercato non sarà in grado di assorbire.

Banche, mercati e il ritorno della politica

Un altro tema cruciale è la trasformazione dei mercati finanziari. L’ascesa del credito privato e dei fondi non regolamentati offre nuove fonti di capitale, ma anche nuovi rischi. La deregolamentazione, se totale, può minare la fiducia nel sistema; ma un eccesso di regole soffoca l’innovazione. Draghi propone una via intermedia: trasparenza senza burocrazia. Chi investe deve sapere esattamente dove finisce il proprio denaro, ma senza che l’intermediazione venga strangolata dalla rigidità normativa.

In Europa, tuttavia, il problema principale non è la regolazione, ma la redditività delle banche. Il capitale c’è, ma i margini sono sottili e la concorrenza dei “mercati privati” cresce. La questione non è tanto ridurre le regole, quanto ripensare i modelli di business, favorendo fusioni, efficienza e specializzazione.

Il quadro macro, nel frattempo, si complica. Con deficit elevati e inflazione strutturalmente più alta, le banche centrali dispongono di pochi margini di manovra. La politica monetaria, avverte Draghi, non può più sostenere la crescita: deve concentrarsi nel contenere i prezzi. La responsabilità di stimolare l’economia passa così ai governi, che devono saper utilizzare la politica fiscale con coerenza e visione di medio periodo.

In altre parole, l’era del “whatever it takes” è finita. Non perché sia venuta meno la volontà di difendere l’euro o la stabilità dei mercati, ma perché il contesto è cambiato. L’Europa non può più contare sull’intervento illimitato delle banche centrali. Deve costruire una credibilità fiscale basata su produttività e disciplina, non solo su regole e vincoli.

Il disordine come nuova normalità

Alla fine, il messaggio di Draghi non è catastrofico, ma realistico. Il nuovo mondo non è semplicemente più pericoloso: è più complesso. È un sistema dove potere, tecnologia e risorse naturali si intrecciano in modi inediti. I vincitori saranno i Paesi capaci di essere contemporaneamente resilienti e innovativi, forti e flessibili, competitivi e cooperativi.

La forza è tornata una condizione necessaria per ottenere rispetto dei propri interessi strategici. Nella politica internazionale di oggi non basta essere virtuosi: bisogna essere solidi. Le regole contano ancora, ma solo se sostenute dalla capacità di difenderle. È una lezione che l’Europa, abituata a vivere all’ombra della protezione americana, deve imparare in fretta.

Eppure, in questa visione severa, c’è spazio per una nota di fiducia. La cooperazione è ancora possibile, a patto che sia fondata sulla responsabilità e non sull’illusione. Le banche centrali continueranno a coordinarsi nei momenti di crisi, come hanno fatto nel 2008. I mercati continueranno a premiare le economie più solide. Ma la stabilità, d’ora in poi, non sarà più un bene gratuito: andrà guadagnata.

La lezione di un pragmatismo europeo

Il pensiero di Draghi non è nostalgico né ideologico. È una mappa per orientarsi in un mondo che non riconosce più confini netti tra economia, tecnologia e politica. La sua voce è quella di chi sa che la complessità non si elimina, si governa. E che la vera risorsa strategica del futuro non sarà il gas, il litio o i dati, ma la produttività.

Nel “nuovo disordine globale”, dobbiamo smettere di inseguire un equilibrio che non esiste e a costruire piuttosto un sistema capace di adattarsi. La geopolitica non è più la scacchiera di un tempo, ma un ecosistema di poteri interdipendenti. In questo contesto, il compito dell’Europa è tornare protagonista non per nostalgia di grandezza, ma per responsabilità storica e necessità di sopravvivenza.

La diagnosi si può riassumere in tre parole: FORZA, PRODUTTIVITÀ, COOPERAZIONE. La forza per essere rispettati, la produttività per essere competitivi, la cooperazione per sopravvivere. È un’agenda di realismo e coraggio, la più difficile delle virtù politiche. E forse, proprio per questo, la più necessaria nel mondo che ci attende.

È un passaggio d’epoca: dalla fiducia cieca nei mercati alla consapevolezza che la stabilità va costruita, giorno per giorno, con visione, disciplina e capacità di cambiamento. Un messaggio che vale per i governi, per le imprese e per chiunque cerchi di capire – e di gestire – la complessità del nostro tempo.

La nuova geografia economica che si sta delineando a livello globale, conferma una volta di più che nella Realtà geopolitica non ci sono amici o nemici per sempre, solo interessi strategici.

✍️ Prof. Alessandro Pozzi – Politecnico di Milano, Corso “Geopolitica per la Difesa e la Sicurezza”


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