Geopolitica per la Difesa e la Sicurezza

LA NUOVA GEOECONOMIA POST-AMERICANA

Per quasi ottant’anni l’economia globale si è retta su un equilibrio semplice: gli Stati Uniti fornivano “beni pubblici globali” – sicurezza delle rotte marittime e dei cieli, stabilità del dollaro, regole comuni per il commercio e protezione militare – e in cambio ottenevano fiducia, finanziamenti a basso costo e un ruolo di leadership riconosciuto da tutti.

Oggi questo schema si sta sgretolando. La politica economica dell’amministrazione Trump, parte del più ampio “arsenale geopolitico” statunitense ha introdotto un cambiamento di portata storica: gli USA non sono più il garante globale, ma un attore che si comporta in misura crescente da estrattore di rendita, chiedendo concessioni dirette ai propri partner e subordinando la protezione a pagamenti e vincoli bilaterali.

È un vero terremoto, che sta ridisegnando la geografia economica globale.

Nel PODCAST e nell’articolo che segue, punto a fare una sintesi di cosa stia avvenendo nella geografia economica globale, con quali conseguenze anche rispetto ai mercati finanziari del debito e degli asset denominati in dollari USA, arrivando a tracciare una prima mappa dei vincitori e dei perdenti, in un mondo sempre più frammentato.


1. USA da garante globale a estrattore di rendita

Per decenni, il “pacchetto americano” comprendeva:

  • sicurezza dei mari e dei cieli, fondamentali per il 90% del commercio mondiale che viaggia via mare;
  • stabilità del dollaro, presente in circa l’88% di tutte le transazioni valutarie globali (BIS);
  • regole di commercio e investimenti condivise (dal GATT al WTO, fino a Bretton Woods);
  • protezione militare, con una spesa di 850 miliardi di dollari l’anno, pari al 40% del totale globale.

In cambio, Washington otteneva enormi vantaggi: finanziarsi a tassi più bassi (0,5–1 punto percentuale in meno rispetto ad altri Paesi), plasmare gli standard tecnici globali a misura delle proprie imprese, attirare capitali esteri.

Con Trump, lo schema si è rovesciato. Gli Stati Uniti non offrono più beni pubblici, ma protezione condizionata: dazi, acquisti vincolati, fondi obbligatori.

Caso emblematico: nel 2025 il Giappone ha dovuto accettare dazi del 15% su auto e acciaio (dieci volte superiori ai precedenti) e la creazione di un fondo da 550 miliardi di dollari – pari al 14% del PIL giapponese 2024 – destinato a investimenti negli USA, sotto controllo diretto della Casa Bianca.

2. Erosione della fiducia tra gli alleati

La guerra commerciale, lanciata dagli Stati Uniti con la finalità dichiarata di riequilibrare il commercio globale e favorire la “reindustrializzazione” ed il rafforzamento dell’autonomia manifatturiera americana, ha determinato un incremento senza precedenti dei livelli tariffari applicati alle importazioni.

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I partner più fedeli degli Stati Uniti sono oggi i più penalizzati:

  • Giappone: oltre 1,1 trilioni di dollari investiti in Treasury USA (12,4% del totale detenuto da stranieri) e 54.000 militari americani ospitati sul territorio.
  • Canada: il 75% del suo export è diretto al mercato statunitense.
  • Messico: primo partner commerciale degli USA, con scambi annui per oltre 860 miliardi di dollari.

Non sorprende quindi che i sondaggi Pew Research del 2025 registrino un crollo della fiducia: –15 punti in Giappone, –20 in Canada, –32 in Messico.Pew Research Center

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Non è solo un dato simbolico. La perdita di fiducia spinge governi e imprese a diversificare. Il Canada ha già annunciato un rafforzamento dei rapporti con l’UE per ridurre la propria dipendenza dagli Stati Uniti.

3. L’UE e l’ASEAN: più vicine alla Cina

Gli effetti si vedono soprattutto in Europa e nel Sud-Est asiatico.

  • UE–Cina: nel 2023 scambi per 857 miliardi di euro, contro i 750 miliardi con gli USA.
  • ASEAN–Cina: oltre 970 miliardi di dollari di commercio bilaterale nel 2022, più del doppio rispetto ai flussi con Washington.

Le politiche americane hanno accelerato questa tendenza:

  • Indonesia: nel 2025 ha firmato con Pechino un progetto da 3 miliardi di dollari per creare un “doppio parco industriale” tra Java centrale e la provincia del Fujian.
  • Europa: ordini di caccia Eurofighter in aumento in Spagna e Turchia segnalano un parziale affrancamento dall’industria militare statunitense.
  • Valute locali: la banca centrale indonesiana e la PBoC regolano scambi in rupia e yuan, riducendo l’uso del dollaro.

Per i Mercati emergenti si sta allargando la frattura tra resilienti e vulnerabili.

  • Resilienti: grandi economie emergenti come India, Brasile, Indonesia e Turchia. L’India, ad esempio, ha riserve valutarie oltre i 695 miliardi di dollari. Durante la pandemia e l’aumento dei tassi Fed (2022–23) hanno evitato crisi di bilancia dei pagamenti.
  • Vulnerabili: paesi più poveri, soprattutto in Africa subsahariana e America centrale. La Banca Mondiale stima che oltre il 60% dei Paesi a basso reddito sia oggi a rischio di crisi del debito. L’uscita degli USA dal ruolo di “assicuratore” globale peggiora la situazione: meno accesso a capitali, più costi per autoassicurarsi, stagnazione economica.

5. Il dollaro perde stabilità e liquidità

Il dollaro rimane dominante, ma la traiettoria è chiara:

  • La sua quota nelle riserve globali è scesa dal 71% (1999) al 58% (2023, dati FMI).
  • L’euro è stabile al 16%, lo yen intorno al 5,8%, lo yuan al 2,2% (con forti controlli di capitale).
  • L’oro è tornato protagonista: 20% delle riserve globali, con acquisti record delle banche centrali (1.037 tonnellate nel 2023).
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Le minacce del presidente del Consiglio dei Consulenti Economici Stephen Miran – come trasformare i Treasury in debito perpetuo o tassare gli investitori stranieri – pur smentite dal segretario al Tesoro Scott Bessent, hanno incrinato la percezione di sicurezza degli asset americani.

Segnale evidente: nei primi mesi del 2025 il dollaro si è svalutato mentre i tassi dei Treasury decennali hanno superato il 4,7%, segno di deflussi di capitale.

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6. Il prezzo di una FED sempre meno indipendente

L’amministrazione sta provando a piegare governance, persone e strumenti della Fed. Se queste pressioni prendono piede, è plausibile vedere tassi lunghi più alti (premio a termine), dollaro più capriccioso, money markets più fragili e una disinflazione più difficile — cioè costo del capitale strutturalmente maggiore per famiglie, imprese e Tesoro USA.

  • Pressioni politiche dirette sui tassi Il Presidente ha intensificato le richieste pubbliche di tagli, facendo della linea sui tassi un tema politico esplicito (anche al centro del meeting di Jackson Hole), con annunci e dichiarazioni che mirano a orientare la postura della banca centrale nel breve termine.
  • Tentativi di rimozione/coercizione di membri del Board E’ stato avviato un tentativo di rimuovere la governatrice Lisa Cook, gesto letto dai mercati come segnale di interferenza. Il quadro legale è incerto: un’ordinanza della Corte Suprema (maggio 2025) ha esplicitamente escluso che il provvedimento toccasse le protezioni di rimozione “per giusta causa” per i membri del Board/FOMC, aprendo a un probabile contenzioso lungo.
  • Nomine e proposte che “politicizzano” l’assetto della Fed Un candidato sponsorizzato dall’amministrazione ha proposto di spostare più potere monetario verso le 12 Reserve Banks regionali (sotto maggiore influenza politica locale), scardinando l’attuale barriera tra Board e banche regionali. In parallelo, si discute di riforme più ampie per restringere il mandato della Fed e riplasmarne gli strumenti: queste riforme sono ispirate ispirate a “Project 2025” di cui E.J. Antoni è chief economist  ed è stato nominato da Trump a capo del Bureau of Labor Statistics (BLS) ad agosto 2025, dopo la rimozione della precedente commissaria Erika McEntarfer.
  • Spinta legislativa per cambiare la “cassetta degli attrezzi” In Congresso è stato depositato il FAIR Act (Cruz/Scott) per vietare alla Fed di pagare interessi sulle riserve bancarie, cioè lo strumento chiave con cui la Fed controlla i tassi a breve dal 2008. Powell ha avvertito che eliminarlo “complicherebbe” l’implementazione della politica monetaria e destabilizzerebbe i money markets.
  • Segnali per “prendere in mano” la successione e l’orientamento della banca Si moltiplicano le indiscrezioni su un intervento anticipato nella scelta del successore di Powell (mandato in scadenza a maggio 2026) e su modi per estendere l’influenza dell’Esecutivo sulle 12 banche regionali. Anche questi segnali alimentano l’aspettativa di una Fed più allineata alla linea della Casa Bianca

Le conseguenze più probabili sono il rischio “fiscal dominance” ed un premio a termine più alto, volatilità e frizioni nei money markets se salta l’IOER, indebolimento della “ancora” di credibilità della FED e l’incertezza di regime causata da un contenzioso legale prolungato dinanzi alla Corte Suprema.

Una prima evidenza del “prezzo” richiesto dai mercati è offerta dall’aumento significativo già registrato dal premio per il rischio di durata che remunera l’insieme dei rischi di maggiore inflazione ed incertezza sui tassi, con un contributo crescente del rischio fiscale americani.

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Mercati e analisti temono che, con un forte deficit e debito elevato, l’Esecutivo spinga la Fed a tenere i tassi più bassi del necessario per finanziare lo Stato. Questo alza il premio per il rischio sull’estremità lunga (yield a lungo su, curva più ripida), perché aumentano i timori di inflazione futura e di erosione della credibilità dell’istituto.

Il tentativo di rimuovere Lisa D. Cook — membro del Board of Governors della Federal Reserve (quindi membro votante del FOMC) finirà molto probabilmente dinnanzi alla Corte Suprema che ha già segnalato come il proprio ordine di maggio non si applichi alla FED, lasciando aperta una questione costituzionale che può durare mesi, facendo salire al margine il premio per il rischio su dollaro e Treasuries.

Ma soprattutto una FED percepita come meno indipendente ancora meno le aspettative: è più difficile portare l’inflazione al target e tenerla lì senza costi macro più alti.

7. La Cina come vincitrice relativa

Il paradosso è che la Cina, principale avversario di Washington, appare oggi meno penalizzata.

  • L’export verso gli USA è sceso dal 22% (2000) a meno del 14% (2023).
  • Ha creato circuiti finanziari alternativi: sistema di pagamenti CIPS, maggiore uso dello yuan in Asia, Africa e Medio Oriente.
  • Ha costruito un’enorme autoassicurazione: riserve superiori a 3.200 miliardi di dollari, di cui circa il 30% in USD, il 65% in altre valute e il 5% in oro.

Il vero interrogativo per noi europei è se Pechino saprà diventare un assicuratore credibile, o replicherà la stessa logica di ricatti che oggi critica: realisticamente la Cina sarà implacabile quanto gli Stati Uniti nel perseguire i propri interessi strategici.

8. Previsioni di frenata per il commercio mondiale

A complicare questo quadro c’è il rallentamento del commercio mondiale. Dopo un primo semestre 2025 brillante (+4,4% rispetto al 2024 grazie alle scorte accumulate prima dei dazi), tra giugno e dicembre i volumi caleranno del –4,7%, seguiti da un ulteriore –0,8% nel 2026. In termini nominali, la crescita del commercio globale sarà appena dell’1,3%.

Le tariffe americane stanno lasciando un’impronta permanente secondo Oxford Economics: entro il 2030, i volumi globali saranno circa il 5% inferiori rispetto alle proiezioni pre-dazi. Il principale freno arriverà dagli Stati Uniti, con importazioni in calo dell’8% nel 2026. La Cina sarà colpita più duramente: esportazioni verso gli USA in discesa del –12% nel 2025, del –10,7% nel 2026, con una contrazione complessiva di circa un quinto in due anni.

Giappone e Messico, soggetti a dazi effettivi intorno al 15%, vedranno le proprie esportazioni verso Washington ridursi di circa –15% entro il 2026. Germania e Canada resisteranno meglio, con perdite sotto il –10%.

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Ma la Cina, pur penalizzata, sta cercando vie alternative: nel 2026 le esportazioni verso l’Europa cresceranno del +2,3%, con guadagni anche verso ASEAN e Corea del Sud. Al tempo stesso, le sue importazioni totali scenderanno del –2,4%, con un crollo degli acquisti dagli USA (–5% nel 2025, –1% nel 2026).

In sintesi, l’era dei dazi non segna solo un riallineamento geopolitico: significa anche meno commercio, più frammentazione e catene di fornitura più costose. Un mondo dove la crescita non si ferma, ma rallenta e si distribuisce in modo molto diverso rispetto al passato.

LA CAPACITÀ DI STIMOLARE LA DOMANDA INTERNA E CREARE NUOVE SINAPSI COMMERCIALI DETERMINERANNO I REALI VINCITORI E GLI SCONFITTI TRA PAESI E AZIENDE.

L’UE può sfruttare flussi finanziari in rientro, creazione di nuovo debito comune e gli effetti di stimolo dell’espansione fiscale tedesca per aumentare gli investimenti su Competitività, Tecnologia e Difesa.


Un primo bilancio di questi cambiamenti è già possibile: la trasformazione del modello americano in quello che molti analisti definiscono un “casinò globale” ha tre conseguenze principali:

  1. Indebolisce gli alleati storici degli Stati Uniti.
  2. Lascia spazio a Pechino come attore meno penalizzato.
  3. Rende l’economia mondiale più frammentata, più costosa e meno sicura.

Per la prima volta dal 1945, gli Stati Uniti non sono più percepiti come il grande assicuratore del sistema internazionale, ma come un fattore di rischio.

Il risultato è un mondo con meno cooperazione, meno fiducia e meno crescita rispetto al mondo che conoscevamo e che era già finito, a livello geopolitico, ben prima del “Liberation Day” trumpiano. Gli effetti a tendere della nuova geografia economica sono chiari:

  • Investimenti più cari: più risorse destinate alla difesa dal rischio, meno a innovazione e infrastrutture.
  • Commercio ridotto: dazi e incertezza frenano le supply chain.
  • Produttività più bassa: meno concorrenza, meno cooperazione.

La globalizzazione ha infatti creato un’architettura di interdipendenze che oggi si è trasformata in terreno di scontro strategico. Gli Stati Uniti, invece di rafforzare le proprie capacità per affrontare questa nuova fase, stanno indebolendo a lungo termine gli strumenti del cosiddetto “ordine mondiale liberale basato sulle regole” che li avevano resi dominanti: il pensiero strategico della destra Repubblicana, da almeno sei anni, riteneva insostenibile tale egemonia liberale ed addirittura pericolosa per la Sicurezza degli USA.

La sfida del XXI secolo non sarà più solo militare o tecnologica, ma geoeconomica: chi saprà trasformare l’interdipendenza, da vulnerabilità a leva strategica, guiderà il ordine mondiale, multipolare e non più multilaterale.

Chi perde di più?

  • Gli alleati storici degli USA, traditi nelle aspettative e privati del dividendo della pace.
  • I paesi poveri, che vedono chiudersi l’accesso ai capitali e alle opportunità di crescita.

Chi guadagna relativamente?

  • Potenzialmente la Cina, grazie alla sua strategia di autoassicurazione.

Alcuni blocchi regionali, come l’Unione Europea e i paesi asiatici che partecipano al CPTPP, potranno assorbire meglio il costo di questo nuovo assetto di sicurezza ed economico, solo se riusciranno a coordinarsi in modo più stretto.

La domanda chiave è se l’Europa e i principali mercati emergenti sapranno colmare il vuoto lasciato dagli Stati Uniti, mantenendo aree di scambio più liberali e basate su regole condivise stabili, o ci stiamo dirigendo verso un’economia globale permanentemente instabile.

La nuova geografia economica che si sta delineando a livello globale, conferma una volta di più che nella Realtà geopolitica non ci sono amici o nemici per sempre, solo interessi strategici.

✍️ Prof. Alessandro Pozzi – Politecnico di Milano, Corso “Geopolitica per la Difesa e la Sicurezza”


📌 Integrare l’analisi geopolitica nelle valutazioni di allocazione strategica è ormai indispensabile.

C’è un forte bisogno, da parte dei Leader aziendali e dei Private Bankers, di avere una visione strategica, per dare senso, creare connessioni nuove e individuare opportunità nei rapidi cambiamenti in atto, sempre più guidati dai processi decisionali degli Stati.

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